Il contesto territoriale
Tarsia è senz’altro tra i più antichi borghi della Valle del Crati. Su uno sperone roccioso, all’estremità dell’abitato, si trovano i resti di un castello normanno ed ancora più a Nord una torre della stessa epoca, a guardia, verso i territori di Sibari e la foce del Crati. Ma le origini di Tarsia sono ben più lontane. E’ in questo ameno territorio che è sorto il Campo di Deportazione Ferramonti di cui il Museo della Memoria la biblioteca Storica fanno parte.
Pillole di storia
Il campo di internamento “Ferramonti di Tarsia” è stato quello più popoloso tra i numerosi luoghi di internamento per ebrei, apolidi, stranieri nemici e slavi aperti dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940, all'indomani dell'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale. Il campo fu ufficialmente chiuso l’11 dicembre del 1945. Il primo ad essere liberato e l’ultimo chiuso. Il campo fu collocato in un’aria insalubre e malarica di proprietà del costruttore Eugenio Parrini, molto vicino ad importanti gerarchi fascisti. La sua ditta, era già presente a Ferramonti dove aveva ultimato dei lavori di bonifica.
Dovendo costruire il campo di concentramento, Parrini fece in modo di utilizzare a questo scopo il cantiere già presente in loco e le baracche che ospitarono il primo gruppo di ebrei erano in realtà le baracche utilizzate in precedenza dagli operai impegnati nella bonifica. Impose nel campo di Ferramonti, un proprio spaccio alimentare in regime di monopolio. Considerata la sua natura di luogo di detenzione, con una struttura a baraccamenti e una recinzione fatta da una staccionata di legno sormontata da una linea di filo spinato, le condizioni di vita nel campo tuttavia rimasero sempre discrete e umane. Parrini dopo la guerra si tolse la camicia nera, indossò quella bianca e diventò un grosso imprenditore edile specializzato nella ricostruzione delle chiese.
La curiosità
Nessuno degli internati fu vittima di violenze o fu direttamente deportato da Ferramonti in Germania. Al contrario, le autorità del campo non diedero mai seguito alle richieste tedesche. Furono deportate solo quelle persone che, avendo chiesto un trasferimento da Ferramonti ad un confino libero in alcuni centri del nord Italia, si trovarono sotto l'occupazione tedesca dopo il settembre del 1943. Ferramonti non fu quindi in alcun modo un campo di transito per i lager tedeschi. Per questa sua peculiare caratteristica, lo storico ebreo inglese Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti come "il più grande kibbutz del continente europeo". In effetti gli unici deceduti di morte violenta all'interno del campo furono quattro vittime di un mitragliamento da parte di un caccia alleato durante un duello aereo con un velivolo tedesco sopra il campo (27 agosto 1943).
La vita a Ferramonti
Gli internati potevano ricevere dall’esterno posta e cibo e, all'interno del campo, godettero sempre della libertà di organizzarsi eleggendo propri rappresentanti, di avere un'infermeria con annessa farmacia, una scuola, un asilo, una biblioteca, un teatro e dei propri luoghi di culto (due sinagoghe, una cappella cattolica e un'altra greco-ortodossa). Diverse coppie si formarono e sposarono nel campo, dove nacquero 21 bambini. A conferma di questa sua storia di umanità, le relazioni degli ufficiali del Regno Unito che entrarono a Ferramonti nel 1943, descrissero il campo più come un piccolo villaggio che non un campo di concentramento.
Sempre in base alle loro relazioni, l'incidenza dei decessi per cause naturali avvenuti a Ferramonti fu bassa: 8-12 decessi ogni 2.000 persone. Gli ebrei deceduti nel campo sono stati regolarmente seppelliti all'interno sia del piccolo cimitero cattolico di Tarsia (16 sepolture registrate, ma solo 4 ancora presenti) che nel cimitero di Cosenza (21 sepolture registrate e tutte presenti), dove ancora è possibile vedere le loro tombe. Il campo era sotto la responsabilità del Ministero dell'Interno e retto da un commissario di pubblica sicurezza, ma la sorveglianza esterna era affidata alla MVSN.
Per l'opera di umanizzazione verso le condizioni di vita degli internati, svolta dai funzionari di polizia che si avvicendarono al comando (Paolo Salvatore in primo luogo, e quindi Leopoldo Pelosio e Mario Fraticelli) e dal cappellano del campo, il padre cappuccino fra Callisto Lopinot, si verificarono vari attriti tra le autorità di polizia e la milizia, che comportarono problemi nei confronti dei funzionari stessi. Per importanza e umanità si distinse il primo direttore, Paolo Salvatore, che venne allontanato dal campo agli inizi del 1943 per un atteggiamento troppo permissivo nei confronti degli internati. Il frate cappuccino Lopinot si prestò alacremente per aiutare tutti, senza distinzione di credo e religione. Anche il maresciallo del campo, Gaetano Marrari, viene ricordato dagli internati con grande affetto per la sua umanità.
Gli aiuti
Gli internati ricevettero continua assistenza dalla DELASEM, l'ente di assistenza ai profughi creato nel 1939 dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con l'autorizzazione dello stesso governo fascista. Vi operava anche la "Mensa dei bambini" di Milano, diretta da Israele Kalk. Il supporto dato dal Vaticano per mezzo del frate cappuccino Lopinot fu anche molto importante, così come l'aiuto dato da Karel Weirich con la sua organizzazione a supporto degli ebrei cecoslovacchi (Opera San Venceslao). Con il deteriorarsi della generale situazione economica dell'Italia nel corso della guerra, anche le condizioni di vita nel campo si fecero progressivamente più difficili. Dall'estate del 1942 fu concesso a tutti gli internati che lo volessero il permesso di lavorare al di fuori del campo per integrare le scarse razioni alimentari.
È anche importante ricordare i vicendevoli rapporti di aiuto e di solidarietà intercorsi fra gli internati e la popolazione di Tarsia. Dopo la liberazione il campo rimase aperto sotto una direzione ebraica, supervisionata dagli inglesi, fino alla fine della guerra. Molti degli ex-internati seguirono le forze armate alleate. Nel maggio del 1944, un gruppo di circa 350 di loro si imbarcarono da Taranto per la Palestina; 1000 partirono il 17 luglio 1944 da Napoli per gli Stati Uniti dove furono internati per qualche tempo a Camp Oswego nello Stato di New York, prima che fosse concessa loro il diritto di residenza nel paese.